È la prima volta che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) dedica una visita ad hoc all’uso dell’isolamento, nelle sue varie forme, nelle carceri italiane.
I vari regimi di isolamento e segregazione sono stati già oggetto di valutazione in precedenti rapporti, ma mai una disamina così sistematica era stata condotta. L’isolamento è, insieme alla pena di morte e alla “pena fino alla morte”, tra i trattamenti più disumani e degradanti. E se una visita ad hoc viene effettuata su un aspetto specifico della detenzione, come l’isolamento, allora vuol dire che il problema in quel Paese è davvero serio.
Riferisco un dato per tutti. Quando il CPT, nel corso della sua visita che ha riguardato le carceri di Biella, Opera, Saluzzo e Voghera, si sofferma sul problema dei suicidi in carcere, a fronte del fatto che nel 2018 si era raggiunto il numero record di 63, rileva che i quattro suicidi che si sono verificati negli istituti visitati (Saluzzo e Voghera) hanno tutti riguardato detenuti in condizioni di isolamento (per diversi motivi: disciplinare, preventivo oppure su base volontaria).
Nessuno dei detenuti era stato valutato a rischio suicidio, ma erano stati considerati soggetti difficili da trattare per via del loro comportamento. Ma il CPT rileva anche che chi è stato considerato a rischio suicidio, poi viene trattato con modalità che si traducono in un isolamento di fatto, con la sorveglianza a vista magari affidata alle telecamere, che è l’esatto contrario di quanto serve a chi è già in preda ai suoi fantasmi.
Vi sono poi tutta una serie di altre criticità riscontrate, che però il personale che lavora in carcere, a partire dai direttori non è messo nelle condizioni di conoscere. Perché le 53 pagine che compongono il rapporto, a cui vanno aggiunte le pagine delle risposte date dal Governo ai rilievi mossi, sono in inglese.
Quanti sono coloro che all’interno dell’amministrazione penitenziaria conoscono la lingua inglese così bene l’inglese da leggere tutto il documento? Accade così che, magari, i direttori leggono sui giornali che nel loro carcere sono avvenuti maltrattamenti, o che ci sono carenze e lacune di vario tipo, senza essere messi nelle condizioni di sapere cosa esattamente dice e chiede il Comitato, e quindi senza essere messi neppure nelle condizioni di replicare o prendere provvedimenti.
La redazione e la pubblicazione di ogni rapporto del CPT richiede un impiego di risorse umane e finanziarie considerevole. C’è la visita che dura circa due settimane, poi l’elaborazione di una prima bozza di rapporto da parte della delegazione che ha condotto visita e, infine, la sua adozione durante la sessione plenaria.
Questo è un investimento da parte del Consiglio d’Europa, di cui il CPT è un organismo di monitoraggio, nella costruzione di uno Stato di Diritto sempre più forte. Perché allora lasciarlo sotto utilizzato? Perché non provvedere subito alla sua traduzione e diffusione, intanto negli istituti oggetto della visita e poi anche negli altri?
Mi chiedo se davvero lo Stato italiano non abbia a disposizione quelle risorse – parliamo di qualche migliaio di euro al massimo – per assicurare la traduzione ufficiale di un testo che dovrebbero conoscere tutti, dal Governo a partire dai suoi Ministri competenti, ai parlamentari, perché ne facciano uno strumento della loro attività.
Ma soprattutto da parte del personale che lavora in carcere e dei detenuti, così come da parte degli avvocati e di tutti quei cittadini interessati a conoscere in che condizioni versano le carceri del proprio paese.
Trovo infine paradossale che proprio chi ha fatto della trasparenza un fiore all’occhiello del proprio mandato politico non abbia ancora attivato la procedura di pubblicazione automatica dei rapporti del CPT, vincolati – come sono ancora in Italia – all’autorizzazione alla pubblicazione da parte del Governo.
Marco Pannella aveva fatto del diritto alla conoscenza l’impegno prioritario dell’ultima parte della sua vita, consapevole che costituisse l’antidoto al degrado dello Stato di Diritto e, quindi, alla violazione di diritti umani fondamentali soprattutto nei luoghi di privazione della libertà personale.