Work life balance oppure no?
Vivere per lavorare o lavorare per vivere: le sfumature tra realizzazione personale, smart e settimana corta
Lasciamolo decidere ai lavoratori Per alcuni la realizzazione personale passa anche (o soprattutto) dalla costruzione della propria identità professionale, altri preferiscono avere molto tempo libero.
Noi boomer ci eravamo abituati a un mondo in bianco e nero. D’altronde le sfumature di grigio si teorizzano solo nel 2011, con il romanzo di Erika Leonard (nota con lo pseudonimo di E.L. James). Per argomenti molto meno frivoli ci siamo ancorati a un “giusto” o “sbagliato”, che con il tempo abbiamo visto sempre meno definito: riparliamo di lavoro? E magari di lavoro che riguarda (anche) i giovani.
In questi giorni due indagini sembrano affermare tutto e il contrario di tutto, sempre utilizzando la base dati Istat. Da un lato si ribadisce che i giovani si sentono “sfruttati”, costretti a fare gli stagisti per una vita intera, con retribuzioni infime; dall’altro si segnala il ricorso sempre più massiccio di “over 50” (e magari anche “over 60”) da parte delle imprese che hanno bisogno di flessibilità e dinamismo. Non c’è da scegliere tra il bianco e il nero, piuttosto è il caso di ammettere che c’è del vero nell’una e nell’altra ipotesi di lavoro. Così come – lo abbiamo ricordato poche settimane fa – è altrettanto vero che tanti giovani preferiscono il mare aperto dell’esperienza di lavoro all’estero, piuttosto che nuotare nell’acquario domestico. Consapevoli che oltre i nostri confini vengono meno quasi tutte quelle protezioni che attutiscono la competizione almeno quanto la produttività.
Se è vero che molte aziende, comprese le startup, preferiscono una dirigenza anagraficamente avanzata, vorrà dire che gli “over 60” si dimostrano più flessibili e più competitivi di molti giovani “under 35”. O almeno di quei giovani italiani che hanno scelto l’acquario e non il mare aperto: scrupolosi nel misurare il numero di ore di straordinario, o propensi a cercare quella ipotesi di “qualità della vita” che privilegia la sicurezza della settimana corta, al rischio di un sabato (o di una domenica) al lavoro. Una cosa mi sembra sicura: non cerchiamo di mettere il mare in un secchiello. Non proviamoci nemmeno a regolamentare il nuovo con le idee del vecchio. Quando vedo rinascere il dibattito italiano su jobs act, o quando vedrò – tra pochi giorni o poche settimane – il nuovo rilancio dei sindacati e di alcuni partiti sul tema delle pensioni e delle uscite anticipate, mi sentirò nella necessità di ricordare che nemmeno Amazon rivendica ancora lo smart working per tutti.
Credo che sarebbe doveroso, per tutti, uno sguardo più laico sui temi del lavoro, sia di quello svolto dai giovani, sia di quello esercitato dai meno giovani. C’è un nuovo e un vecchio che è “vecchio” continuare a inseguire. C’è una volontà di distinguere e di normare – tra causali da definire nei contratti, fino alla distinzione molto italiana di tempo indeterminato contro tempo determinato – che ha fatto il suo tempo. Se la flessibilità è condizione per assicurare quella produttività che tanto manca a molte nostre aziende e nel complesso a tutto il mondo dell’impresa italiano, forse sarebbe opportuno invocare la flessibilità anche sulle regole. Sono cambiati i paradigmi. Se è più che lecito dare spazio a coloro che puntano più sul “work life balance”, dovrebbe essere altrettanto lecito non criminalizzare coloro che vedono nel lavoro una modalità più ruvida per articolare la propria identità personale. Per non vedersi costretti a considerare la “migliore gioventù” quella che sceglie di lasciare l’Italia, dovremmo ammettere che anche tra coloro che restano forse c’è una quota di persone che non vedono nel lavoro solo mercificazione e alienazione.
La vecchia – e non risolta – questione del rapporto tra diritti e doveri (difficile dimenticare Aldo Moro e la sua stagione dei doveri che avrebbe dovuto accompagnare, prima o poi, quella dei diritti affermatasi dopo il 1968) dovrebbe innanzitutto ammettere che non c’è più bianco e nero. In mezzo c’è un mondo contraddittorio e contemporaneo, fatto di individualità irriducibili a masse o a ideologie (per lo più vecchie di un secolo). Sarà che noi italiani ci innamoriamo facilmente, e trasformiamo ogni novità in una potenziale rivoluzione (anche se poi del rivoluzionario abbiamo scarsa vocazione), ma dovremmo ammettere che molta retorica del nomadismo digitale, collegato a una sorta di irrevocabile sentenza di smart working, è esaurita, ed esausta. Solo per fare un esempio. Dovremmo augurarci che chi è chiamato a rappresentare i lavoratori (e i cittadini in generale) sappia accettare gli elementi contradditori, senza inseguire normazioni che finirebbero per cancellare un pezzo (più grande che piccolo) di realtà.
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