Filosofo e semiologo, Ugo Volli è il prosecutore ideale del lavoro di Umberto Eco, con cui ha iniziato a collaborare nel 1971 per la rivista Versus – Quaderni di studi semiotici. Oggi è tra i più prolifici filosofi del linguaggio con oltre trenta saggi pubblicati. Insegna all’Università di San Marino, tenendosi le mani libere anche nelle prese di posizione pubblica, mai banali. Per anni è stato presidente della sinagoga riformata Lev Chadash a Milano.
Di recente ospite di “PiazzaPulita” su La7, mantiene la sua proverbiale calma serafica anche quando viene circondato dal fuoco incrociato delle grida. Ha tenuto in particolare a smentire la fake news dei 40mila morti a Gaza e a denunciare tra i primi quanti siano invece i palestinesi – omosessuali, tra i primi – ad essere stati torturati e uccisi da Hamas. Temi che però purtroppo alle televisioni interessano poco.

Professore, sono tornati i pogrom. In Europa, in Olanda. Che tempi stiamo attraversando?
«È un momento molto difficile. Capisco ora i racconti dei miei genitori e nonni: in particolare quel che non avevo mai compreso, cioè come il fascismo avesse potuto buttarli fuori da scuola, dal lavoro, dalle associazioni sportive e culturali cui erano iscritti, senza che nessuno intorno a loro protestasse. Oggi essere ebrei è di nuovo problematico».

Il sette ottobre ha sfidato la civiltà occidentale. La colpisce che tanti fingano di non vedere, di non capire?
«Peggio che non capire, molti solidarizzano. Il terrorismo islamico piace alla sinistra (non solo quella più estrema purtroppo) perché sfida la civiltà occidentale, si oppone al capitalismo, al liberalismo economico, alla democrazia politica, all’America: perché è ‘rivoluzionario’. All’inverso, come diceva Spadolini, «la civiltà occidentale si difende sotto le mura di Gerusalemme».

E i media non stanno esattamente aiutando…
«Il sistema dei media ha abbandonato da tempo la missione di informare il proprio pubblico, di riferire i fatti, belli o brutti che siano. Cerca invece di educarlo alle “idee giuste” secondo un modello sovietico o fascista, che ormai è quasi totalitario anche in Europa e negli Usa. Questo totalitarismo pedagogico è in larghissima parte di sinistra, quindi purtroppo nemico di Israele. È difficilissimo spiegare sui giornali o in TV anche le cose più elementari, come il fatto che Israele agisce per autodifesa contro un nemico che non è “il popolo palestinese” ma i terroristi armati e diretti dall’Iran; che ha fatto sforzi mai compiuti da altri per salvaguardare la popolazione civile, che non vi è nessun genocidio a Gaza, che anche ammettendo le cifre montate della propaganda di Hamas, 40 mila morti in un anno sarebbero l’1% della popolazione, molto meno dei costi di guerre come il Vietnam o l’Ucraina».

Lei da ebreo si sente sicuro?
«Io sì, mi sento sicuro. Ho fiducia nelle forze dell’ordine. Francamente meno nella magistratura, che sta agevolando l’importazione in Italia di persone che finiranno con essere la base sociale del terrorismo, se non i suoi operativi. Sarei meno sicuro se dovessi ancora lavorare nella mia università, dove agli estremisti di sinistra dei centri sociali è concesso di impedire l’accesso, la parola e il pensiero di tutti coloro che non la pensano come loro».

Israele nasce per difendere gli ebrei dalla persecuzione. Oggi crescono quelli che lo considerano un fastidio della storia. Il mondo ha esaurito lo shock per Auschwitz, ha dimenticato l’orrore nazista?
«Israele nasce per realizzare il diritto del popolo ebraico a uno stato nazionale. Ha l’obbligo, come tutti gli stati, di difendere il suo popolo: è un fastidio solo per chi li vuole di nuovo sterminare. L’Europa non si è quasi accorta di Auschwitz prima del processo Eichmann, nel ‘61. Primo Levi, subito dopo la guerra si è visto rifiutare due volte “Se questo è un uomo” da Einaudi, perché “il tema non interessava”. Molti ex fascisti e razzisti sono diventati predicatori democratici. Giorgio Bocca ha firmato il “Manifesto della Razza”, prolifici e premiati ex fascisti come Scalfari e Calvino sono diventati maestri di democrazia, il presidente del “tribunale della razza”, Azzariti, ha finito la carriera come presidente della Corte Costituzionale».

C’è chi distingue tra antisemitismo e antisionismo. Due facce, invece, della stessa medaglia?
«L’antisionismo è l’antisemitismo di oggi. Dopo quello religioso, economico, razziale, da settant’anni si è diffuso un antisemitismo statale, l’antisionismo. Il sionismo è il patriottismo del popolo ebraico, un movimento analogo al Risorgimento italiano. Chi nega al popolo ebraico il diritto alla sua espressione nazionale, non lo fa perché non gli piace il movimento, ma perché non vuole che gli ebrei siano liberi e sicuri».

Il sionismo di Teodor Herzl nacque come risposta al caso Dreyfus. Oggi quelle premesse – e quell’esigenza di autodifesa – sembrano rafforzate…
«Dreyfus era un leale ufficiale francese, l’espressione di un patriottismo statale che c’è stato moltissimo anche in Italia, in Germania, in tutt’Europa. I nostri nonni e bisnonni si illudevano di poter essere cittadini come gli altri, solo con un’altra religione. Le leggi razziste e poi la Shoah li hanno duramente delusi. La mia generazione si è illusa che il problema fossero solo le dittature fasciste, dunque che fosse sparito. Il presente mostra che l’accettazione degli ebrei è di nuovo assai precaria, soprattutto a sinistra. La differenza oggi è che se qualcuno cercasse di nuovo di sterminarci, avremmo una difesa nello stato di Israele. È questa è la ragione vera per cui tanti lo odiano: non solo è l’ebreo degli stati, ma lo stato capace di difendere gli ebrei».

Il movimento sionista socialista fu molto importante. Ben Gurion era uno dei suoi esponenti. E poi Golda Meir. Da dove nasce questo testacoda nella storia della politica, con la sinistra che si fregia di essere antisionista?
«Il sionismo maggioritario era socialista. Dal ‘48 alla crisi economica degli anni ‘90 Israele è stato il solo stato democratico davvero socialista. I kibbutz, istituzioni collettiviste, erano la spina dorsale politica e sociale, non solo economica dello stato. Ma l’appoggio della sinistra cadde quando Stalin si accorse che Israele non era disposto a entrare nel suo blocco, voleva essere libero. Dal 1956 il PCUS cambiò cavallo e si mise ad appoggiare contro Israele i regimi arabi più infami e reazionari, dall’Egitto alla Siria. Tutta la sinistra si allineò e ha mantenuto questo orientamento. L’invenzione di un popolo “palestinese” (che non c’era, fino a quegli anni si definivano siriani meridionali o immigrati arabi o egiziani) avviene a Mosca negli anni ‘60. Per fare solo un esempio, il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen si forma all’università per stranieri di Mosca e si laurea lì con una tesi negazionista della Shoah».

Vede una soluzione possibile?
«La premessa di ogni soluzione è che Israele vinca e che avvenga un cambiamento di regime in Iran, liberando le donne e i giovani dall’orrida dittatura clericale degli ayatollah. Così potranno svilupparsi di nuovo quegli accordi di Abramo che i terroristi hanno cercato di distruggere».

E in Italia cosa si può fare?
«Quanto all’Italia e all’Occidente, è necessaria una grande battaglia culturale non solo contro l’antisemitismo, ma contro il suo brodo di cultura woke, politicamente corretto, “intersezionale”. Per difendere Israele bisogna anche capire i meriti della cultura europea, della libertà, della democrazia, in genere dei valori della nostra tradizione. Credo che questa battaglia oggi sia aperta. Il paradosso è che non sono i cosiddetti “progressisti” o i “democratici” di tutte le nazionalità a difendere questi valori che hanno lasciato cadere, ma la destra».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.