Osservatorio napoletano
“Votare si al referendum giustizia perché la casta dei pm frena gli investimenti stranieri”, intervista a Paolo Macry
Il 12 giugno si vota per i referendum sulla giustizia. Tre dei cinque quesiti riguardano la categoria delle toghe: la separazione delle funzioni tra giudici e pm, l’equa valutazione dei magistrati, la riforma del Csm. Contro lo strapotere della “casta” ci sarà la prova del quorum. «Questi referendum sono particolarmente importanti perché è sotto gli occhi di tutti gli italiani che il nodo giustizia, il funzionamento della giustizia, è una défaillance, un problema colossale per il diritto italiano e per l’economia italiana. Il malfunzionamento della giustizia è uno degli ostacoli più importanti all’investimento straniero in Italia, e prima ancora lo è per lo Stato di diritto, per l’equilibrio tra i poteri, per la stessa legalità», afferma lo storico Paolo Macry.
La giustizia è uno dei nodi del nostro Paese, tuttavia la riforma della giustizia è da sempre al centro di dibattiti e mai di un cambiamento profondo, concreto, strutturale. Perché?
«La giustizia è uno dei tanti pezzi che funzionano male nel nostro Paese, penso alle semplificazioni, al mal funzionamento della burocrazia centrale e soprattutto a quello delle burocrazie regionali. Tuttavia, se si può fare questo tipo di gerarchia, il non funzionamento della giustizia è il più grave di tutti, perché giustizia significa libertà, significa diritti, significa possibilità di colpire i reati attraverso procedure giuste, e il giusto processo consente, dal punto di vista del mercato, di dare sufficienti garanzie agli operatori del mercato sia italiani che stranieri. Il nodo giustizia, quindi, è centrale in uno Stato liberale e democratico, ma in Italia, per una serie di motivi che risalgono ormai a decenni or sono, il rapporto tra magistratura e politica ha subìto una patologia clamorosa. Il nostro è un Paese che nel 1992/’93 ha vissuto un cambiamento del sistema politico in toto per iniziativa della magistratura, attraverso una serie di procedure inquisitorie che col senno del poi la storiografia oggi, in modo praticamente unanime, giudica spesso forzate».
Il problema, secondo lei, è più politico o più culturale?
«Penso che il problema sia più politico, non penso che gli italiani siano affezionati a una giustizia ingiusta o che nascano tagliagole e giustizialisti. C’è piuttosto un’onda politico-mediatica – ed è inutile fare nomi e cognomi, li conosciamo – che ha molto insistito su questo tasto e probabilmente ha aizzato sentimenti giustizialisti, irrazionali, populisti. In fin dei conti il sistema politico crollato nel ’92/‘93 è stato sempre rimpiazzato da sistemi molto difettosi che hanno sempre dovuto fare i conti con una magistratura indocile alle regole del gioco. E così contemporaneamente, per furbizie politiche e furbizie mediatiche, è emersa l’Italia degli arrabbiati, l’Italia di “onestà onestà”, ma io non credo che sia la maggioranza del Paese. Certo, da questo a ritenere che gli italiani vadano in massa a votare per questi referendum, che sono stati ignorati sempre dalla stessa stampa e sempre dagli stessi partiti, ce ne passa».
Un muro di silenzio per evitare la prova del quorum che sarebbe un segnale importante per la politica, per il Paese, per tutti…
«Qualcuno ha parlato di quesiti scritti bene o male, ma il problema non è questo. Il punto è che di questi referendum non se n’è parlato. Ora, un po’ a foglia di fico, giornali e talk show stanno facendo intervenire qualcuno per lavarsi la coscienza ma di fronte al silenzio che c’è stato è chiaro che viviamo in un Paese dove la magistratura si è presa, insieme con il dito, tutto il braccio e per opportunismo una serie di partiti, che sulla carta sono riformisti come il Partito democratico, o anche il Movimento Cinque Stelle e tutto sommato nella sua tradizione anche la destra, stanno al gioco del silenzio. Nessuno può dimenticare i cappi esposti nel Parlamento italiano e il furore giustizialista sia di sinistra sia di destra, perché c’è stato sia quello di sinistra che di destra».
Di cosa ci sarebbe bisogno adesso? Di una cultura più matura, di una classe dirigente diversa, di una magistratura finalmente capace di fare un passo indietro?
«Innanzitutto bisognerebbe dare agli italiani il diritto di conoscere quello di cui si sta parlando, se non c’è questo siamo nelle nebbie di chi strumentalizza le opinioni, aizza gli istinti peggiori. Poi è chiaro che ci vorrebbe una classe politica diversa, del resto le riforme devono farle i politici. Ci vorrebbe una seria volontà politica di riforma, volontà che oggi è molto difficile da trovare. Come un cancro che genera metastasi è difficile da curare. La stessa Cartabia, che è una galassia a parte rispetto a Bonafede, ha dovuto prendere atto che siamo un Parlamento in cui una serie di segmenti di opinione di destra e dell’area che fa capo ai Cinque Stelle fanno ostruzione. E d’altro canto c’è una magistratura che ha dimostrato di essere una corporazione pronta a difendere i suoi interessi, i suoi stipendi, le sue pensioni, le sue consulenze ministeriali, i suoi privilegi. La magistratura è una casta ed è un potere forte, ed è complicato spostare i poteri forti. Per rompere questo circolo vizioso la strada referendaria è sembrata un’opportunità, ma in modo vergognoso non se n’è parlato facendo finta di niente. Eppure si tratta di un referendum su una materia fondamentale dopo una stagione di scandali clamorosi. Non si è mai visto che la soluzione al “sistema” sia quella di non parlare, di non informare. Questo fa capire quanto sia purulenta la ferita, quanto coriaceo sia questo pezzo di sistema. Del resto, si è pensato di risolvere uno dei più grossi scandali degli ultimi decenni (il caso Palamara) licenziando chi ha parlato, è clamoroso! Io andrò a votare e se non si raggiungerà il quorum ci terremo le riforme timide della Cartabia. Ma la speranza è l’ultima a morire».
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