Voto Usa, tutte le consuetudini ignorate da Trump che ha già dichiarato guerra a Harris: le differenze tra italiani e americani
Fra noi italiani e gli americani, le differenze visibili e permanenti sono quelle di due pianeti diversi. Chi ha visto la famosa serie “Sopranos” ha visto un frammento di autobiografia americana e non una serie sui camorristi italiani, perché il personaggio interpretato da James Gandolfini era un gangster di origine napoletana, ma era un perfetto patriota e la New York Review of Books gli dedicò un importante saggio, per noi incomprensibile.
Prendiamo le armi: noi italiani fatichiamo a comprendere che quasi tutti gli americani hanno una pistola, io non ne ho incontrato mai uno senza, neanche fra i dem di sinistra. E ieri Kamala Harris, candidata democratica, si è lasciata scappare durante un comizio con Oprah Winfrey di avere una pistola: “Se qualcuno entra in casa mia gli sparo”. Poi se ne è pentita, poi è scoppiata a ridere e si è salvata in angolo spostando il discorso sulle vere armi di cui si discute, che non solo la domestica pistola nel cassetto di cucina, ma i fucili d’assalto, copia di quelli dell’esercito ma che non dovrebbero avere un caricatore da venti colpi come quelli da combattimento. E invece è facilissimo applicare un caricatore militare su un fucile sportivo con un po’ di scotch.
Ma c’è qualcosa di più profondo che separa Italia e Stati Uniti e che contamina istantaneamente gli immigrati italiani di ultimissima generazione e i loro figli ed è il senso dell’onore, del dovere, la gerarchia, i milioni di figli che si rivolgono al padre chiamandolo “sir”, l’addestramento a combattere sportivamente in maniera pericolosa ma disciplinata, con la diffusa fantasia americana di essere gli eredi sia di Roma che di Sparta. I miei figli come tutti i bambini americani considerano l’idea di copiare il compito in classe un disonore inconfessabile se non all’analista, di cui vergognarsi per tutta la vita. Le regole, gli sport fisici come il football sono obbligatori come il volontariato. Le elezioni americane finora erano avvenute in un campo e una dimensione onorevole anche se contiene l’odio e la voglia di distruggere il nemico, finché dura la partita.
Ieri si è cominciato a votare in quattro Stati: South Dakota, Virginia e Minnesota, benché in quasi tutti gli altri Stati si andrà a votare il 4 novembre per avere i risultati il 5, giorno in cui sia America e mondo intero sanno chi ha vinto. Ma quest’anno dubito che il nome del vincitore o della vincitrice riceverà la prima legittimazione che è il “conceding”, lo sconfitto che riconosce la vittoria dell’antagonista. Ci sarà ancora uno Stato che comincerà a votare prima degli altri ed è il Michigan dove le urne si apriranno il 26 ottobre. Il Michigan è uno Stato “swing”, incerto, e da solo può determinare vittoria o sconfitta. Nel novembre del 2019 Donald Trump non “concesse” la vittoria a Biden ma la impugnò, sostenendo che le schede con il suo nome erano state sostituite da schede per Biden arrivate su camion delle Poste. Di qui l’urlo di Trump che chiamò alla rivolta il suo popolo tanto che uno degli slogan repubblicani è “Stop stealing votes”, smettete di rubare i voti.
La rivolta che ne seguì il sei gennaio del 2020 quando il “mob” dava l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso, fu così violenta e scioccante perché seguiva un fatto semplicemente inaudito: il Presidente che risultava eletto dai voti, Joe Biden, era un “cheater”, uno che aveva barato insieme al suo partito e come è letterariamente noto da quelle parti, quando la situazione si fa dura, scendono in campo quelli duri e finisce a botte: “When the going gets tough, the going get tough”. Che un Presidente non riconoscesse la vittoria dell’avversario facendola seguire dagli auguri e dalla promessa di fedeltà al nuovo “commander in chief”, era un fatto nuovo e anche un fattaccio. Ma del tutto inatteso. Questa volta invece dobbiamo attendercelo. Non soltanto Trump ma anche lo staff della Harris hanno detto che bisognerà vederci chiaro nel caso di vittoria del tycoon, il che significa non concedere la vittoria.
L’altra consuetudine mandata in pezzi da Trump e che probabilmente resterà infranta è il cambio della guardia: il 20 gennaio dell’anno successivo all’elezione il Presidente in carica con la First Lady ed eventuali cani e gatti avrà già fatto caricare valigie e masserizie su appositi veicoli a cura del Secret Service, restando in giacca e cravatta ad aspettare il motorcade. Il motorcade è la lunga fila di SUV tutti uguali, carichi di agenti e dignitari, su uno dei quali viaggia il Presidente eletto. Se l’eletta sarà Kamala Harris, con lei viaggerà per la prima volta un First Gentleman, ovvero Mr. Douglas Emhoff, suo marito che si porterà dietro due figli di un precedente matrimonio, mentre lei, Kamala, non ha figli e l’aspirante vice di Trump, il senatore Vance le ha per questo dato signorilmente della gattara. L’ultima volta che abbiamo assistito alla cerimonia è stato quando Barack Obama ha atteso Donald Trump il 20 gennaio del 2016, gli ha aperto la porta della Casa Bianca e, malgrado il reciproco disprezzo, i due si sono intrattenuti in convenevoli prima che Barack e Michelle togliessero il disturbo. Ma quando Trump avrebbe dovuto aprire la porta a Joe Biden e a sua moglie, non si è fatto trovare. Aveva già abbandonato la magione.
In questo primo giorno di inizio elezione in soli tre Stati, è avvenuta la prova generale dei nuovi piani di difesa dell’ordine pubblico: le polizie di contea al comando degli sceriffi, le polizie di Stato e cittadine, la Guardia Nazionale e i federali sono scesi in campo ieri e resteranno sul campo forse anche dopo la giornata elettorale del 4 novembre. E per fare un mestiere del tutto nuovo: disporre in piazza forze di polizia per impedire brogli e tumulti, risse nei seggi e nelle strade. Ciò non era mai avvenuto negli Usa dove il processo elettorale è sempre stato un evento più sportivo che politico, più da pic-nic sull’erba che da ambulanza. E comunque mai stato turbato da crimini. Trump ha detto più volte che riconoscerà la vittoria del vincitore ma solo nel caso che sia la sua. Una sfida. Un bullo? Non è solo perché il Partito Democratico ha già fatto preparare centinaia di file di denuncia preventivi, pronti ad essere usati. La questione della franchezza e lealtà brutale alle regole e a tutto ciò che è consolidato, penso che sia il contenuto della diversità.
In questi tre Stati non è obbligatorio votare in anticipo, ma è una facoltà che deriva dalla Storia, dalle corse dei Pony Express e degli enormi problemi logistici derivati dalle distanze, il cambio dei cavalli e dalla protezione delle schede votate. Il “cheating”, l’imbroglio elettorale è stato registrato raramente nella storia americana ed è di sicuro quanto di meno americano possa esistere. Gli americani sono l’unico popolo che ha creato un aggettivo che significa “non appartenente alla nostra cultura e tradizioni e fierezza” ed è “unamerican”, non un antiamericano, ma un corpo estraneo. Ai tempi della “caccia alle streghe” – definizione del drammaturgo Arthur Miller autore del “Crogiolo” – secondo marito della sex symbol Marilyn Monroe a sua volta ultima amante del Presidente John Kennedy – i comunisti erano banditi come un-Americans, travestiti da americani e capaci di parlare come americani, ma definitivamente non americani. Ed ecco una nuova differenza fra noi e loro: l’emigrato. Nella tradizione americana l’emigrato è il più perfetto degli americani, arrivato a vivere il suo sogno nella celebrata land of opportunities. Tutta retorica in apparenza perché oggi il fronte dell’immigrazione clandestina è anche la frontiera della politica.
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