Yankee go home, era tutto quel che sapevamo gridare e avevamo torto marcio

Papà, oggi andiamo a giù-le mani-dal-Vietnam?”. Non oggi, piccola figlia: oggi prepariamo le bandiere americani da bruciare e domani grideremo “Yankee, go home”. Anche in spagnolo per via di Cuba: “Yanqui, go home”. Poi qualcosa dal maggio francese: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”. È solo l’inizio, continuiamo a batterci. Ma fuori l’America, fuori gli imperialisti e la Cia.

Era la metà degli anni Sessanta e la guerra del Vietnam occupava tutto lo spazio emotivo del grande gioco delle manifestazioni globali parigine, romane e milanesi; e a Berlino – ma solo nel settore Ovest -, perché a Berlino Est, settore sovietico, non succedeva mai niente. I nomi dei presidenti americani, se in visita e subito affrontati nelle strade, prendevano il suffisso “boia”: “Johnson-boia”, “Nixon-boia”. E noi, folle oceaniche: “Yankees, go home!”.

Avevamo torto marcio perché in Vietnam, Cina, Cambogia e poi in America Latina, i morti ammazzati dai nostri eroi e non dagli americani si contavano a milioni. Come oggi i ragazzi innamorati degli sgozzatori che gridano lo slogan di Hamas: dalla riva del fiume Giordano a quella del mare, Palestina libera. Che, tradotto, significa: non deve esistere lo Stato di Israele. I neonati scannati del 7 ottobre? Le donne morte tirate a strascico per Gaza a prendere sassi e sputi? La rivoluzione non è un romanzo di gala.

Loro sono come noi eravamo, e certamente non ci ascolteranno: studiate, studiate tanto. Non fidatevi del gatto e della volpe. Noi, all’età vostra e a comando, ne abbiamo dette di cazzate! Però quando la polizia ci randellava, noi magari menavamo ai poliziotti, ma non andavamo da mamma a piangere perché il cattivo poliziotto ci aveva randellato. Accadeva sessant’anni fa, quando in tutte le piazze del mondo occidentale scendevamo in strada bruciando bandiere americane e innalzando quelle del nord Vietnam: Ho Chi-Minh era il nostro idolo. Il “sentiero di Ho Chi-Minh” era il nostro percorso. I nostri alleati erano i capelloni americani che si rifugiavano in Canada per sfuggire alla leva ed essere spediti nel “Nam”.

Oggi chi se ne frega dei ragazzi russi che non sanno dove scappare per sfuggire al loro stesso mattatoio in terra altrui, nell’Ucraina que bien resistes, come si cantava di Madrid davanti alle armate del generalissimo Franco. Chi è venuto dopo non ne sa nulla o poco, perché il Vietnam fu il trauma psicologico e ideologico più potente dello scorso secolo e ancora riverbera il suo rock da elicottero con mitragliatrice nei boschi che si animano rivelando caverne da cui uscivano i reggimenti vietcong, erroneamente considerati guerriglieri sugli alberi.

Ed eravamo tutti così visceralmente antiamericani e anche antiisraeliani perché ci fu la guerra dei sei giorni nel 1967 con cui lo stato ebraico aveva fatto fuori in meno di una settimana tutti gli eserciti che si apprestavano ad asfaltarlo. E odiavamo il generale Moshe Dayan che, con la sua benda nera su un occhio che gli dava un’aria romantica di Giulio Cesare orbo e vittorioso, faceva parte del pessimo immaginario collettivo, e più ancora perché gli americani lo invitarono in Vietnam di cui si ricorda la foto del generale pirata sorridente su un elicottero con chitarra e mitragliatrice.

Sessant’anni fa smettemmo di tagliarci i capelli imitando passivamente gli studenti americani figli dei fiori. Non che tutta l’America buona fosse da buttare. Per fortuna non esiste al mondo paese tanto antiamericano quanto l’America. L’America conservatrice che urla a sé stessa con la vociona di Donald Trump, “Yankee go home”. Gli americani adorano insultarsi e dichiararsi colpevoli anche degli schiavi egizi. I Black Panther erano adorabili quando sparavano, tifavamo tutti per il campione di boxe Cassius Clay diventato Mohammed Alì col pugno chiuso. Imitavamo, come fanno oggi, le università altrui.

Quanta inventiva oggi nel negare nelle nostre università la scienza pensata da cervelli ebrei. Che coraggio, che croce uncinata sulla fronte. Anche sessanta anni fa succedeva. I nazisti volevano fare come i comunisti e si alleavano. Il nemico era sempre l’America capitalista. Da Berkley, l’università della rivoluzione, cominciò a spuntare, accanto alla malvagia America yankee e imperialista, quella misteriosa e impalpabile che era l’altra America, sinistra con tutta la famiglia Kennedy (cattolica irlandese, molto prolifica) e c’era stato poi il primo grande caso del grande complotto e di “gola profonda” quando Lee Harvey Oswald dalla finestra al sesto piano della biblioteca pubblica di Dallas, Texas, uccise con un fucile Carcano italiano il mitico Presidente John Fitzgerald Kennedy, marito di Jaqueline Bouvier (in quel momento First Lady Kennedy e poi miliardaria Onassis) che raccolse delicatamente il pezzo di cranio volato via dalla testa del marito come da fotogramma e tenne addosso quel vestito rosa macchiato di sangue per tre giorni. Il mistero, le inchieste fallite.

La Commissione Warren di quel delitto anticipò le nostre paranoie a venire. Come la strage di Piazza Fontana (arrestato un pericoloso anarchico! l’anarchico gettato dalla finestra! ammazzate il commissario Calabresi!). E poi altro anarchico in galera, Pietro Valpreda, fra lampadari liberty col pericoloso gruppo della Ghisolfa. Tutti per la Ghisolfa. Ma intanto: chi aveva ucciso Kennedy? Il solo Oswald? Ma non vedete il trucco del complotto? Harvey Oswald è appena tornato dall’Unione Sovietica con una moglie russa: è una così chiara macchinazione della Cia, cazzo, compagni.

Poi mentre Lee Harvey Oswald in manette era scortato verso il tribunale, un proprietario di balera e all’ultimo stadio di cancro, Jack Ruby, sparò a favore di telecamera in pancia di Lee Harvey e lo fece secco. Testimoni e assassini morivano come mosche. Maledetta America. La Grande Paranoia del nemico ovunque, della Cia ovunque, Kgb non riportato, l’imperialismo americano ovunque. Cha-cha-cha di rigore: “Cuba sì, Yanqui no”. E… “Yankee, go home”, indeed. E poi sempre come oggi l’affacciarsi dell’accoppiata Rouge-Brun – nero rosso ovvero nazicomunista, che ogni tanto ritorna. Brigate rosse, brigate nere. Chi ha vinto? In Italia si chiamarono nazi maoisti. Il compagno Mao aveva fatto eliminare dieci milioni di antirivoluzionari? Ha fatto bene, e comunque la rivoluzione non è un romanzo di gala. Todos los guerrilleros, o anche tutti combattenti del Fatah, l’ala armata dell’Olp di Yasser Arafat, un egiziano che aveva messo insieme il fronte palestinese.

Non c’era ragazza israeliana di sinistra e ribelle che non avesse il suo amante palestinese del Fatah, un po’ come in Italia l’alta borghesia milanese si onorava di avere a cena i comandanti delle Brigate rosse. L’unica speranza americana era nell’immaginario collettivo il buon Robert Kennedy, che era stato ministro della giustizia del fratello e, come tale, aveva pagato il conto chiesto dal mafioso siciliano Sam (Salvatore) Giancana detto Mooney o Castigamatti, affinché i sindacati votassero per il fratello. Ma ecco Robert Kennedy assassinato su palco, Martin Luther King ucciso, e il nuovo presidente Johnson – un democratico del Sud dall’aria losca ma dall’anima pulita – che metteva fine, usando le maniere forti, alla segregazione razziale del Sud con l’uso dell’esercito. Ma poco importava: Yankee go home, era tutto quel che sapevamo gridare.