Vi ricordate Brigitte Nielsen, ex attrice e soprattutto modella danese, sposata a Sylvester Stallone, bellezza nordico-statuaria vagamente androgina (altezza 1,85)? Conseguì vari riconoscimenti come “peggior attrice non protagonista”, ma da noi ebbe un quarto d’ora di celebrità perché presentò un festival di Sanremo nel 1992 e divenne la “Strega nera” in Fantaghirò. Avete mai pensato che possa avere a che fare, in modo esplicito, con lo Zeitgeist? A volte infatti accade che l’inafferrabile spirito del tempo si nasconda nel titolo di un libro, o in uno slogan pubblicitario. È uscita la sua autobiografia, intitolata significativamente You only get one life. Dove proprio in virtù del fatto di avere una sola vita rivendica il diritto di essersi concessa ogni perversione sessuale e di aver praticato ogni tipo di tradimento (tradì Stallone per Schwarzenegger, che almeno – ho controllato in Rete – era più alto di lei!).

Un titolo che mi ha ricordato lo slogan vagamene terroristico, tipico degli anni ‘90, di uno shampoo che schiariva i capelli: “Hai una sola vita, perché non viverla da bionda?”. Già, perché (non si prende neanche in considerazione che uno potrebbe apprezzare il colore naturale dei propri capelli, quand’anche fosse nero o grigio topo)? L’umanità, almeno in questa parte di mondo, proprio non ce la fa più a immaginarsi una vita dopo la morte. Nel sapere tecnico-scientifico che governa le nostre esistenze, e che pure ci dispensa tante promesse, nulla autorizza a pensare che qualcosa di noi potrà sopravvivere dopo la fine biologica (o comunque nulla che avrà coscienza di sé: dunque non può interessarci). Occorre rassegnarsi. In un articolo del 1944 il super-laico George Orwell osserva che «se la morte pone fine a tutto, diventa molto più difficile credere che si possa essere nel giusto anche quando si viene sconfitti».

Sia gli uomini che le nazioni vengono giudicati solo «sulla scorta del loro successo materiale». Orwell prosegue dicendo che il crollo nella fede nell’immortalità ha avuto la stessa importanza dell’affermarsi della civiltà meccanica, e conclude: «Io non voglio che torni la fede in una vita ultraterrena ( ed è comunque improbabile che ciò avvenga). Voglio però sottolineare che tale sparizione ha lasciato un grande vuoto e che dovremmo tenerne conto». Ora, da questo “grande vuoto”, dalla certezza diffusa che l’essere umano si estingue con la propria morte, da questo assunto immanentistico, condiviso dalla maggioranza della popolazione (anche da quella credente) possono però discendere scelte e comportamenti radicalmente opposti. Se ho una vita sola perché rinunciare a qualsiasi piacere, benché eccessivo o scellerato, perché trattenersi dall’ingannare il prossimo, perché astenersi da una sistematica sopraffazione?

Ma anche, diametralmente, ci si potrebbe chiedere: se si ha a disposizione una sola vita per quale ragione non provare a darle un senso, aiutando il nostro prossimo sofferente, in tutto e per tutto eguale a noi? Perché non lasciare anche una minima traccia di sé facendo qualcosa di utile per gli altri, per il bene comune (lo stesso concetto di “successo” potrebbe qui avere una propria declinazione etica)? Insomma da quel presupposto possono legittimamente derivare sia un nichilismo assoluto e sia una etica umanitaria. La Nielsen ha fatto bene a spassarsela, eppure quell’imperativo, di sperimentare qualsivoglia eccesso, è strettamente legato alla possibilità – al potere – di farlo (un potere, o “potenza”, che occorre saper conquistare: gli aguzzini fascisti di “Salò/Sade” di Pier Paolo Pasolini potevano trasgredire qualsiasi divieto, ben oltre le più audaci avanguardie artistiche). E implica il rifiuto di riconoscere un limite. Intendo dire: il limite cui soggiace qualsiasi cosa o essere in questo mondo sublunare, anche la nostra persona. Ognuno di noi è una parte, non il tutto. Se vuole essere il tutto non si fermerà davanti a nessun ostacolo, chiamerà “legge” il proprio desiderio (come Semiramis, la prima peccatrice nell’Inferno dantesco) e dopo ogni eccesso ne cercherà compulsivamente un altro. Chi intende intensificare la vita, ad oltranza, rischia di perderla perché si dimentica che quella non è mai veramente in suo potere.

Vi invito a meditare, in proposito, sui versi di un grande poeta greco, Kostantinos Kavafis, novecentesco ma quasi senza tempo: «E se non puoi la vita che desideri/ cerca almeno questo per quanto sta in te: non sciuparla/ nel troppo commercio con la gente/ con troppe parole in un viavai frenetico/. Non sciuparla portandola in giro in balìa/ del quotidiano/ gioco balordo degli incontri/ e degli inviti/ fino a farne una stucchevole estranea». Vi sembra troppo moralista?