A processo anche per aver devastato la sua cella
Camorra, il boss Zagaria: “Sto impazzendo”
Lo psichiatra 125. A Michele Zagaria, boss dei Casalesi detenuto in isolamento totale da otto anni per condanne a una serie di ergastoli, una cosa soltanto era risultata di sollievo al silenzio della galera da solo: lo psichiatra identificato con il numero 125. Gli sembrava che quel medico senza nome avesse “azzeccato la terapia farmacologica”. Antidepressivi e ansiolitici. Lo ha detto a un processo. Non l’ha più visto. Neanche un mese dopo la frase pronunciata dal detenuto in un’aula di tribunale, lo psichiatra 125 non ha più varcato la soglia della sua cella.
Lo racconta il suo avvocato Paolo Di Furia che lo difende, oltre che in una serie di altri giudizi, anche in un nuovo processo a Milano in cui il boss dei Casalesi deve rispondere di varie accuse. Per aver distrutto un anno e mezzo fa con un manico di scopa le telecamere di sorveglianza della cella in cui era rinchiuso nell’area riservata del carcere di Opera dopo esser stato trovato con una busta in testa che s’è tolto, agguantando la scopa e dando in escandescenze appena intervenute le guardie carcerarie a soccorrerlo. Per aver dato due schiaffi a un agente che gli aveva fatto rapporto. E per aver minacciato l’allora direttore della prigione attraverso una frase riferita a lui pronunciata durante una visita medica: “Il direttore io lo paragono a una busta di immondizia e io l’immondizia la butto fuori”. Undici i reati contestati e almeno due aggravanti. Quella mafiosa. E quella d’aver causato oltraggio agli agenti in luogo pubblico, perché tale è considerato il carcere.
“Sono murato vivo. Sto impazzendo. Fatemi lavorare, fatemi fare qualcosa. Non m’è permesso? Fatemi almeno pulire la cella da solo”. Questa, dice l’avvocato Di Furia, è la richiesta constante del detenuto Zagaria. C’è un nulla osta della Corte d’Assise di Napoli che gli consentirebbe di lavorare in carcere. Ma a quel permesso nessuno ha mai dato seguito. “Non posso parlare con nessuno e non posso fare assolutamente nulla. Vorrei sentire almeno un rumore umano, anche lontano, che non sia il mio” ha detto Zagaria al suo difensore, che racconta: “La mia grande difficoltà nel processo di Milano è stato lo psichiatra. Erano più comprensive le guardie carcerarie, abituate a vedere persone in questa condizione di isolamento totale, che lo specialista. Lo psichiatra ha insistito nel dire che lui fingeva nel simulare malessere. Se lo psichiatra dice che è inutile la terapia farmacologica vuol dire che tutti quelli che l’hanno visto prima non hanno capito nulla? Fatto sta che gli ha dimezzato la quantità di farmaci. Prima che cominciassero questi atti violenti per i quali oggi Zagaria è sotto processo”. Non è detto che i due fatti, la riduzione dei farmaci e gli atti violenti, siano necessariamente connessi. Ma chissà se ha davvero bisogno di simulare depressione una persona detenuta da otto anni in isolamento totale che per la stragrande maggioranza del tempo non ha avuto le due ore di socialità, cioè le due ore d’aria condivise con altri due detenuti scelti dall’amministrazione penitenziaria. Chissà se lui finge.
LEGGI ANCHE – Il ‘grido’ del boss dei Casalesi Zagaria: “Non mi pentirò mai”
Di certo è singolare non prendere in considerazione che si possa impazzire davvero rinchiusi per un tempo così lungo – “almeno 50 mesi di seguito senza interruzioni” dice il suo avvocato – nell’area riservata, situazione peggiorativa del regime di detenzione già pesantissimo previsto dal 41 bis. Tra i vari problemi del detenuto in questione, non un detenuto qualsiasi per curriculum vitae e pericolosità sociale, c’è il fatto che non si pente. Non ho intenzione di pentirmi, pare ripeta. Dice di aver ricevuto “un centinaio di volte” inviti a pentirsi. Di non sopportare più tanta pressione.
“Lo ha detto a Milano, ma anche una quindicina di giorni fa in processo a Napoli nord e a un processo a Santa Maria Capua Vetere” racconta il suo avvocato. Da chi riceve questi inviti, visto che lì dentro lo può visitare solo lei e, una volta la mese per un’ora attraverso un vetro e parlando attraverso un telefono, un massimo di tre familiari? “Sia da personale interno all’amministrazione penitenziaria sia da persone esterne. Ma non mi ha mai specificato da chi” dice Paolo Di Furia. E lei non glielo chiede? “Per ottenere cosa? – risponde l’avvocato – Dovrei fare una richiesta al carcere, chiedere chi è entrato, non avrei risposte utili”.
L’area riservata, o area rossa, è una parte del carcere completamente isolata. Che non consente contatti con altri detenuti. Sarebbero 50 le persone che attualmente in Italia sono in questo tipo di isolamento. Zagaria avrebbe una condizione ancora peggiore della loro. Delle due ore di socialità, previste per legge a chi sta al 41 bis (con precisi limiti: non possono essere persone per esempio della stessa zona di provenienza) non può usufruire. “Quando è stato arrestato otto anni fa – dice l’avvocato Di Furia – è stato mandato direttamente all’area riservata, in alcuni momenti è tornato al regime previsto dall’articolo 41 bis, ma senza la punizione ulteriore dell’area riservata alla quale è stato poi rispedito anche per questioni di condotta. Sconta ergastoli. Ogni volta che arriva un’altra sentenza, siccome non si può aumentare la pena perché l’eragastolo già c’è, colleziona ulteriori isolamenti diurni”.
In totale isolamento nell’area riservata, calcola il suo avvocato, Zagaria ha trascorso il 90% del tempo degli ultimi otto anni. Poiché tale trattamento è illegale gli chiediamo se la cosiddetta dama di compagnia, ossia la presenza di un altro detenuto condannato anche lui al 41 bis e messo di solito nell’area riservata per preservare almeno la parvenza del rispetto dei diritti umani basicidi chi all’area riservata è stato spedito, Zagaria l’ha rifiutata e per questo sta da solo. “No” assicura l’avvocato. “Ci sono stati brevi periodi all’Aquila in cui aveva accesso alla socialità”. Il boss dei Casalesi ha avuto accesso all’ora d’aria per due ore al giorno insieme ad altre persone (due persone) per non più di quattro mesi, secondo il suo avvocato. Quattro mesi in otto anni.
© Riproduzione riservata