Piani americani e pericoli europei
Zelensky è il megafono di Biden: l’Europa stia attenta al presidente americano che non vuole la fine della guerra
Quando il presidente di un paese insanguinato chiede ulteriori sanzioni e nuovi aiuti militari va compreso anche se andrebbe addomesticata la sua foga oratoria che lo porta a comparazioni troppo sbrigative con il nazismo. Battere le mani al capo della resistenza per questo non basta, serve l’intelligenza delle istituzioni anche nelle situazioni di emergenza. Rischioso è per le democrazie europee seguire Zelensky, oltre che nell’umana comprensione di un interprete della tragedia di una nazione che per trattare deve prima combattere, anche nella copertura politica generale che egli dà alla resistenza. Utilizzando le metafore di una guerra civile mondiale, con la richiesta di vietare ai russi le località di vacanza, egli evoca scenari del tutto apocalittici.
Se non si vuole imboccare la fatale strada nichilistica verso la quale conduce ogni tarda ideologia della guerra giusta, lo sforzo della comprensione degli accadimenti non può essere sospeso con una ovazione sentimentale opportunamente tributata dall’aula. Sul Foglio è stata qualche giorno fa riportata una intervista del prestigioso storico Robert Service, che la vicenda russa la conosce per davvero. La sua diagnosi è che la follia strategica di Putin, che si getta in una sciagurata impresa di annientamento, marcia insieme all’altro “enorme errore strategico” commesso il 10 novembre del 2021 quando Usa e Ucraina hanno firmato il Charter on Strategic Partnership, che Service non esita a definire “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. In effetti, il documento contiene passaggi molto forti, di quelli che sembrano scritti con la polvere da sparo (assistenza piena per una “solida formazione ed esercitazioni”) e destinati a scatenare nell’avversario delle risposte rabbiose che rasentano l’azzardo. In un crescendo di sfida verso il ruolo geopolitico russo, la dichiarazione congiunta richiama il comunicato del vertice Nato di Bruxelles del 14 giugno 2021 e ribadisce il sostegno alle legittime “aspirazioni dell’Ucraina a entrare nella Nato”.
Per scansare ogni equivoco interpretativo la carta scandisce: “Gli Stati Uniti sostengono gli sforzi dell’Ucraina per massimizzare il suo status di Nato Enhanced Opportunities Partner per promuovere l’interoperabilità”. Il nesso causale (che non significa in alcun modo legittimazione della guerra) tra la impresa criminogena della Russia e il reclutamento di Kiev in una alleanza militare ostile parrebbe evidente. Anche le imprese belliche non legittime devono pur trovare una soluzione politica. E Zelensky non sembra sentirci su questa dimensione della mediazione che segue il conflitto, aspirando, più che ad essere espressione di una preoccupata visione europea, a trasformarsi nel megafono di Biden, che tra le immani distruzioni non spegne l’incendio ma rincara la dose dichiarando Putin come un “dittatore omicida”. Riconosciuta la legittimità dell’eroica resistenza, come l’ha definita con una rivendicazione anche dell’efficacia dell’invio delle armi, Draghi ha usato parole di maggiore cautela e anche l’accoglimento di Kiev nell’Unione europea diventa per lui “un processo lungo fatto di riforme necessarie”. Il rischio della condotta di Biden quale “combattente non attivo”, che dopo le ricognizioni aeree elettroniche invoca nuove armi a più sofisticata elaborazione tecnologica, è quello di sbarrare il tempo della politica.
Questo calcolo americano di un prolungamento delle ostilità per accompagnare la Russia in un pantano disastroso non può coincidere con gli interessi europei. Con la sua durezza Biden ottiene per l’America due vantaggi strategici. Il primo, di vedere il suo nemico strategico-militare (la Russia) strattonato con una fornitura di assistenza tecnica, di intelligence che rende sul campo assai micidiali quelle che una volta erano le sbandate truppe ucraine. Il secondo, di osservare il suo competitore economico-tecnologico (l’Europa) mentre deve sostenere l’onere di sanzioni, embarghi, spese per gli armamenti e l’accoglienza di milioni di profughi che rallentano la ripresa e la capacità competitiva nei settori dell’innovazione. Dichiarando che Putin è “un criminale di guerra” Biden non fa nulla per spegnere il fuoco e giungere ad una soluzione negoziata. L’Europa ha tutto da perdere da una condotta intransigente che nelle fiamme rischia in ogni momento di spingere la contesa in una terra di assoluta incertezza, entro cui la possibilità di un razionale controllo dei mezzi e dei fini sfugge irreversibilmente di mano agli attori.
La Russia non può vincere tra le macerie fumanti di una nazione offesa senza con ciò accrescere l’insicurezza geopolitica europea. E neppure può perdere oltre un certo limite senza che la sua catastrofe si abbatta sino a sconvolgere equilibri mondiali delicati. I vantaggi di una umiliazione dell’orso moscovita sarebbero inferiori ai costi incalcolabili conseguenti alla sua destrutturazione economico-militare che accompagna la perdita dello status di grande potenza. La pochezza strategica dei democratici americani ha una lunga tradizione e non stupisce una certa intransigenza. Inedita è invece l’afonia dell’Europa che passiva sembra assistere ad un duello tra una Russia sempre più costretta, per piegare una resistenza imprevista nella sua pervasività, ad incrementare la potenza di sterminio delle bombe ed una America che lascia che in bocca al ventriloquo di Kiev oltre alle immagini delle sofferenze entrino provocatorie parole di guerra. Le formule di Draghi sui tempi lunghi della entrata nella Ue sembrano percepire che l’Ucraina tolta alla Russia segni un colpo micidiale alle velleità neo-imperiali di Mosca, ma anche un fardello per l’Europa costretta ad accollarsi i costi politici, culturali e sociali di un’altra democratura orientale che alterando i principi fondativi restringe i diritti individuali e le conquiste del lavoro.
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