Mai la scena delle elezioni per la Casa Bianca era diventata un palcoscenico così affollato di personaggi, per lo più incerti e mai veramente conosciuti, da cui dipende il destino dell’Europa e del mondo intero. Tiriamo il lembo del sipario e proviamo a dare un’occhiata. Kamala Harris sembra felice come non lo è mai stata. Sembrano tutti con lei, la forbice rispetto a Trump non si è allargata (anzi, si è leggermente ristretta a suo favore). È stata subito scelta come contenitore più che come il leader di tutte le frazioni che costituiscono la graniglia della società americana, spacchettata in etnie, colore della pelle, religione, sesso, atteggiamento sessuale con tutte le possibili occasioni di incrocio che il combattivo filosofo inglese Douglas Murray assicura siano superiori ai 480.

Kamala e il dono della parola che non c’è

Harris non è un tipetto facile. Non è stata benedetta dal dono della parola e come oratore stenta, ma lo sa e ne fa un vezzo come se fosse una stigmate concessa solo agli onesti. Sarà onesta? Dipende dai punti di vista. Lei nasce giudice federale e non politica. Come giudice federale di San Francisco si è battuta come un leone per l’abolizione della pena di morte. Poi, nominata giudice federale nello Stato della California, ha lottato contro il ripristino della pena di morte. Nell’uno e nell’altro caso non sosteneva ideali ma combinazioni di alleanze di governo. Accade anche durante le rare esecuzioni, quando si arriva al momento fatale del death-row e tutti i politici prendono parte al cinico gioco di rinvii, suppliche, respingimenti con rare manifestazioni gruppuscolari mentre dietro le sbarre – in un completo arancione di pura plastica – qualcuno aspetta l’iniezione letale che tanto prima o poi arriva.

Kamala per puro caso nei dem

Kamala si trova nel Partito democratico per puro caso: è stata una magistrata castigamatti legge e ordine, furiosa contro i fumatori di erbe come le joint e tutte le droghe minori. Ma l’hanno scelta a pacco aperto femministe e minoranze senza casa. È piena di soldi da usare lasciatigli da Biden (che è sempre stato un fundraiser da campionato) e quindi ad Harris non manca niente, salvo bei vestiti, un pizzico di classe e il dono della parola. Così come tende a balbettare e rallenta la fluency, oscillando il capo annuendo o negando come un pendolo pensoso.

Zelensky invaghito di Trump

Personaggio già noto e ora co-protagonista elettorale ma con un nuovo ruolo: è lui, con l’eterna tuta militare come saio francescano, Volodymyr Zelensky, presidente dell’Ucraina, quello che Biden ha presentato come “il presidente russo Putin”. La novità che ha introdotto, facendo variare il campo magnetico della geopolitica, l’ucraino – che ha sempre visto Trump come l’orco cattivo che lo vuole consegnare alla Russia – si è invaghito di The Donald, al quale ha telefonato e dal quale ha ricevuto sorridenti elogi. Vero o falso? Non importa. Quel che conta è l’effetto annunciato e, dopo l’eventuale effetto della realtà, segue la propaganda. Il colpo di scena – Zelensky che telefona a Trump – è plateale. Non importa il valore di verità da attribuire alla frase di Trump, in cui afferma che la guerra in Ucraina deve chiudersi con il consenso del presidente ucraino e non per prepotenza russa: quella potrebbe essere una delle tante trovate comunicative e pubblicitarie del tycoon per gettare il fumo negli occhi. Ma la notizia sta nel fatto che Zelensky si comporti come se gli avesse creduto, pronunciando parole di intensa fiducia e amicizia.

Trump, la Cina sotto controllo e la versione Cesare Augusto

I fatti indicano che sentendosi in dirittura d’arrivo (cosa invece tutt’altro che sicura) Trump cerca con largo anticipo per sé una collocazione storica nel campo stretto della pace fra tanti vincitori di guerre e di imperi. E nella nuova propaganda trumpiana il suo nome nativo indiano potrebbe essere “colui che convince il nemico alla pace”. Puzza un po’ di fregatura o di trovata estemporanea, ma intanto ha già avuto i suoi effetti sulle ordinazioni industriali russe in Cina. A The Donald importa mettere la Cina sotto controllo, centellinando le quote di mercato di cui la Repubblica popolare vive. E così, dopo il mestico incontro di Butler fra una pallottola calibro 5.5 e un padiglione auricolare di media fattura, si genera una scintilla che fa modificare a Trump tutti i discorsi bellicosi: lo trasforma nell’ultima versione di  Cesare Augusto, con il suo tempio di Giano double-face pace o guerra o come lo sventurato presidente americano Woodrow Wilson che nel 1918 fece vincere francesi e inglesi (e italiani) nella Grande Guerra, rovesciando sul campo di battaglia un milione di soldati americani (e molti miliardi di virus poi battezzati “spagnola”) contro i tedeschi. Il che gli permise di piantarsi stabilmente a Versailles, dove fu percosso da utopie perentorie e inattuabili, di ictus e polmoniti per costruire una pace che avrebbe dovuto metter fine a tutte le guerre.

Così come capiterà negli anni Novanta del nostro mondo, quando il professor Francis Fukuyama pensò seriamente che – messa in ginocchio la Russia sovietica – tutte le guerre sarebbero state evitate e sarebbe cominciata un’altra era di pace paradisiaca. Ed eccoci qui a trastullarci con nuove bombe e nuove invasioni, con cannoni che sparano più colpi di una mitragliatrice e che corrono qua e di là inseguiti da droni feroci e macchine mortifere.

Basta sprechi in Europa e mano libera in Oriente

Trump, udito il sibilo troppo intimo di una pallottola all’orecchio, ha disegnato questo nuovo ruolo: è un imperatore armato e ricco che chiuderà tutte le guerre e passerà alla storia per questo. A onor del vero, durante il primo quadriennio 2016-2020, si portò a cena a casa sua il presidente nordcoreano Kim Jong-un e quella cena diventò virale tanto quanto quella del presidente cinese Xi Jinping. Trump non vuole mollare l’Ucraina a Putin, ma vuole mano libera a Oriente senza buttare altri soldi in Occidente e senza concedere la vittoria allo zar. Vaste programme, avrebbe commentato il vecchio generale De Gaulle. Ma questo è il suo programma: ricchi dentro, armati fuori, niente nemici in Europa, tutta l’attenzione alla Cina. Questo, nel sogno trumpiano. Come andranno realmente le cose lo vedremo qui giorno per giorno.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.